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Ancora a cinquecento metri d’altezza! Robert Plant, standing ovation a Lignano

Folk, scale arabeggianti, montagne mistiche, nebbie del nord, viaggi onirici, riarrangiamenti da un dirigibile che non atterrerà mai

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foto: ©Robert Plant

LIGNANO – Ci sono concerti e Concerti. Ai primi ci si prepara, si parte, si ascolta in autoradio i pezzi preferiti, si arriva, si beve una birra, si entra, si ascolta, si applaude, fine, si ritorna a casa. Ai secondo (quelli scritti con l’iniziale maiuscola) ci si prepara da mesi, spiritualmente, si contattano gli altri iniziati che vi parteciperanno, si parte e il viaggio avviene spesso in religioso silenzio, si arriva, ci si guarda attorno, si attende l’illuminazione, si ascolta. E poi una parte di noi ritorna a casa, un’altra se ne và da un’altra parte, ad un’altra altezza.

Pochi dubbi: quello di Robert Plant, leggendaria voce dei Led Zeppelin, all’Arena Alpe Adria di Lignano fa parte a pieno titolo dei secondi. E lo si capisce sin dall’attesa, dove gli adepti più sfegatati sono già in fila sotto un sole cocente: metallari attempati in tenuta all-black, vestiario ethno-mistico con vistosi arabeschi che decorano panciotti, la maglietta consunta con il dirigibile che, nell’anima di inguaribili nostalgici, ancora vola.

Si contanto sulle dita di una mano artisti i quali, usciti da un gruppo che fa venire i brividi al solo nominarlo, hanno saputo crearsi una carriera solista degna di tal nome senza scadere mai nel patetico. Così come le reunion a metà, con Jimmy Page, e di quelle sonorità riproposte con straordinaria efficacia che riecheggiano nella notte subtropicale di Sabbiadoro .

Mezzo secolo fa, i sopracitati con J.P. Jones e John Bonham, virano verso il folk: accezione che il nostro riproporrà con straordinario successo per i successivi cinquant’anni. III e i suoi cavalli di battaglia: parte il riff con l’acustica distorta a guisa di sitar imbracciato da Thor: è Friends! Applausi che si trattenevano nella mani da tempo immemore possono finalmente prendere sfogo in una catarsi liberatoria.

L’intelligenza di chi, oltre ad aver composto capolavori, ha saputo gestire un’immagine che vieppiù volte ha travalicato il trascendentale che si concretizza, ancora una volta, lungi dall’essere una caricatura di sé stesso, in uno show adattato ad un signore che sul passaporto vede alla voce date of birth 1948. Nell’era in cui anche i grandi, anche quelli del jazz, si presentano live con basi e strumenti campionati, la banda Plant è tutta rigorosamente live dove spiccano le chitarre dal suono volutamente sporco e la voce pulita ora in duetto ora solista di Suzie Dian, protagonista di arrangiamenti di squisita fattura con la fisarmonica di altri classici, uno su tutti The rain song, da pelle d’oca.

L’eterna passione per il folk britannico e americano, il Galles, la collina d’oro di  Bron-Yr-Aur, le montagne nebbiose e mistiche, gli spiritual e il blues arcaico, gli standard e gli omaggi ai suoi coetanei della West, Coast, a Doc Watson, Donovan, Moby Grape. Everybody’s Song dei Low, il pezzo più riuscito.

La classe non è acqua e vola ancora a cinquecento metri d’altezza, come da manuale di istruzioni: siparietto finale di chi non ha da tempo più nulla da dimostrare e gradi alcolici pub britannico style con And We Bid You Goodnight, quando già prima era calato il vero sipario con la bomba Gallows Pole. Standing ovation finale.

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