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Afrique, non solo Victime. Delirio per Mdou Moctar al Castello di Kromberk

Richiami ancestrali su distorsioni che “così le fanno solo là“; un fingerpicking sabbioso ed incessante che trasuda sangue, bugie, rabbia, dignità

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foto: ©Jernej Humar

CASTELLO DI KROMBERK – La moda del momento è quella di dare del Jimi Hendrix del deserto ad ogni musicista che abbracci una chitarra elettrica e abbia i tratti somatici della zona Sahara e/o limitrofi. Ma per uno dei protagonisti più attesi di Glasbe Sveta = Musiche dal Mondo questo paragone forse è più azzeccato che per altri. Anche lui mancino, un approccio sicuramente più occidentale dei suoi colleghi maliani e del Niger, questo ed altri appellativi si sono davvero sprecati per Mdou Moctar da Agadez nella serata del 1 di agosto, venue la splendida cornice di Grad Kromberk.

Il parco del castello, si diceva. E’ il palazzo stesso il primo mattatore – dove la K iniziale è incisa al contrario – illuminato con un caratteristico e cangiante gioco di luci: dapprima in tinta, sfondo ideale al tipico incedere del blues del profondo Niger, di origine chiaramente rituale e decisamente indolente.

Riff & loop, leit motiv della serata, giri che aumentano e diventano sempre più densi ed incisivi. Richiami ancestrali su distorsioni che “così le fanno solo là“; un fingerpicking sabbioso ed incessante che trasuda sangue, bugie, rabbia, dignità. 

Un qualcosa di molto simile allo Simum scende dalla Brda per mitigare alquanto improbabili ed improvvisati balli nel parterre; gli splendidi vini della già citata zona certo aiutano. E poi c’è il capodastre saldo sul manico della Fender che spara raffiche di fierezza sui tipici accordi sub sahariani.

Chiusure modello New Orleans, quasi sbrigative, non c’è tempo nè spazio nè volontà per i convenevoli di qualsivoglia maniera. MM e i suoi sono in trance agonistico-musicale. 1-2-3 e si riparte con i soliti bpm ed il maniero sloveno che ora è diventato viola, poi arancio, infine verde, si trasferisce all’altezza del sedicesimo parallelo latitudine Nord, roccaforte inviolabile Tuareg, così come la ghiaia del parterre ora pare totalmente rarefatta, fumosa.

Il risultato sonoro è meno cattivo che in studio; L’Africa rimane pur sempre una vittima da liberare, ma la bass line disegna curve da cosmic mentre il drumming è implacabile e martellante quanto fedele alla tradizione: un motore che ha mille anni, duemila, tremila, e che nonostante non sia tarato sui nuovi parametri se ne frega e tira dritto, consapevole della propria affidabilità e del proprio credo.

Se il suo canto è metà lamento e metà preghiera, il sorriso – spiazzante – è di quelli veri, di quelli che prima hanno pianto. Virtuosismi rockeggianti e gran delirio finale dove tutti ballano attorno allo sciamano, formando un cerchio, come in una tribù cosmica. Musiche del mondo al centro del mondo! A qualche km di distanza (non vi dico in quale direzione) – lo sappiamo – non sarebbe stato possibile. 

E il deserto che abbiamo visto tutti chiaramente dipinto dal quartetto non è un luogo geografico bensì una regione dell’ignoto della quale tutti siamo chiamati alla traversata, individualmente e collettivamente. Con la colonna sonora di Mdou Moctar, magari. 

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