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Solstizio d’inferno con Morgan e D’Agaro

Nella villa romana di Ronchi il solstizio all’insegna di Dante

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Foto: ©Eva Ricupero

Ronchi dei Legionari – Dante Dante Dante Dante Dante e ancora Dante. Chi è del mestiere, ma anche chi non lo è, si sarà già preparato ad una full immersion dantesca in tutte le salse per questa stagione 2021, anniversario del settecentesimo dalla morte de il Sommo Poeta.

Dal gelato fino alla biblioteca ultra conservatrice, dalla linea di costumi giungendo al libro pregiato su carta pergamenata edizione limitatissima con risvolti in raso di velluto, il Padre della lingua italiana verrà – volente o nolente, a torto o ragione, per opportunismo o amore – spremuto in ogni direzione dello scibile umano. Senz’ombra di dubbio la proposta di Giulio Morgan, lettura e Daniele D’Agaro, fiati e percussioni improbabili, fa parte del secondo tipo, quello appartenente all’insieme credibilità.

Acheronte, Stige, Flegetonte, i tre fiumi dell’Inferno dantesco, sono gli altrettanti pretesti narrativi scelti da Morgan che, raggiunto prima dell’esibizione, confida «vogliamo scoprire se questo linguaggio così antico e così fondatore, può dialogare con uno completamente diverso come quello musicale, moderno, come quello del jazz.»

Il contesto, a dir poco suggestivo: la Villa Romana all’incrocio tra via Aeroporto e via Raparoni alla periferia di Ronchi dei Legionari. Natura viva con tramonto, pista d’atterraggio dell’aeroporto, svincolo autostradale, tentativi di centri commerciali, radar, torre di controllo, parcheggio multilivello modello Las Vegas perennemente deserto, fabbriche con insegne sbiadite, filo spinato zona militare limite invalicabile, spiragli di guerra fredda, invasione di maggiolini; si, l’inferno per esserci, c’è.

Overture con l’attualità del pensiero dantesco: focus sugli ignavi, quelli senza infamia e senza nome. Alzi la mano chi non ne conosce. Parte anche l’ultimo volo della sera dal Trieste Airport già Pietro Savorgnan di Brazzà e, invece che una traccia da compliation lounge di quelle che andavano di moda una ventina di anni or sono o un’interminabile suite scritta apposta per una hall magari da Brian Eno (e qui gli anni sarebbero quaranta), attacca il clarinetto ribollente di acque sulfuree di Daniele D’Agaro, preciso ed onomatopeico.

Questi non han speranza di morte!” tuona bordeaux in volto come la sua camicia un VirGiulio Morgan trascinatore, sciamanico, ipnotico e naturalmente traghettatore conducendo il pubblico per mano nel girone di iracondi e accidiosi a narrare la progressiva decadenza dell’umanità, concetto che trova ancora una volta conforto nel ventaglio di ricchezza della lingua dantesca confrontata impietosamente con la nostra (di neo lingua) discendente diretta del marketing.

Le lacrime del millenario dolore del mondo a genesi dei fiumi infernali, il sax questa volta sofferente, affannato, apoplettico di DD, uccelli a caccia di insetti sullo sfondo di un sole che declina apocalittico e rumoroso. Crescendo con teste conficcate nel ghiaccio per traditori di congiunti, un saluto di passaggio al conte Ugolino, una comune di gentlemen dalle lacrime ghiacciate che impedendo di uscire alle successive ne aumentano la sofferenza. 

Gran finale con anime all’inferno ma corpi ancora vivi. Però sto Alighieri, rendeva?! “Aprimi gli occhi” blues strizzando l’occhio a Brancadoria. Sentenza: condanna eterna. E’ l’impressionante musicalità de la Comedìa ad oltre sette secoli di distanza su ogni linguaggio, prima di ogni linguaggio e soprattutto oltre ogni linguaggio. Villa romana di Ronchi dei Legionari, addì 21 del mese di giugno dell’anno che si preferisca. E che ora estate sia.

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