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“Piel Twins” per Le Giornate del Cinema Muto

Si è chiusa con la retrospettiva dedicata ad Harry Piel la quarantaduesima edizione del festival, fiore all’occhiello di Pordenone, considerato tra i cinquanta più influenti al mondo

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foto: Harry Piel in Sein größter Bluff, in programma nell'ultima giornata de Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone

PORDENONE – Stanlio e Ollio, Bette Davis, ma anche Tomas Milian, Bud Spencer e Terence Hill, e ancora Jeremy Irons, DiCaprio, Nicolas Cage e Van Damme: la lista potrebbe continuare pressoché all’infinito. Film con protagonisti due gemelli, interpretati dal medesimo attore: un format che da cento anni evidentemente conquista, perfetto per una commedia dei malintesi, che oggi ci potrà apparire un tantino ingenuo ed obsoleto, ma giudicato con il senno di poi da considerarsi – soprattutto per l’effetto che poteva avere sullo spettatore – una trovata straordinaria. Ebbene, non sappiamo se quello di Harry Piel (regista, sceneggiatore e protagonista/i) sia stato il primo della storia del cinema ma sicuramente uno dei, e sicuramente – anzi certamente – ancor’oggi tra i più esilaranti.

Le Giornate del Cinema Muto, quarantaduesima edizione: se vi è stata e vi è una corrente o qualcosa di simile chiamata Retrofuturismo – che si ispira a come il futuro è stato immaginato in passato, laddove i nostri antenati provarono ad intuire come sarebbe stato il nostro avvenire ora idilliaco, più spesso apocalittico, dove a noi fa certo sorridere quella visione a volte ingenua a volte addirittura azzeccata, in barba ad ogni teoria complottistica più o meno credibile più o meno realizzabile, a volte realizzata – allora Le Giornate possono essere definite quasi come il corrispettivo per antitesi. Una sorta di avant- passatismo (e lo scrivente si prende la responsabilità di coniare oggi questo termine qualora non fosse già stato fatto dal momento che non c’è campo dello scibile umano dove non imperversi il copyright) nel quale noi contemporanei, sopraffatti da un presente all’insegna dell’emergenza perenne e ripudiati da un futuro dove l’ia deciderà anche quando dovremo fare colazione o vedere i nostri amici, proviamo a rifugiarci in un passato che laddove idilliaco, come nel caso dei Roaring Twenties, e comunque anche quando apocalittico, ci appare sempre e di gran lunga migliore di ciò che viviamo e ciò che ci attenderà.

Sein größter Bluff = The big bluff = Il mio più grande bluff chiude la mini maratona dedicata proprio a Harry Piel nell’ultima giornata del festival. Una scelta di nicchia all’interno di una rassegna di nicchia: il regista-attore-tuttofare tedesco qui in versione twins – si diceva – interpreta e mette le basi affinché questo – chiamiamolo – filone sia ben definito già dagli esordi. Henry, tight di rigore, stimato professionista, gioielliere ricercato e alla moda, vita regolare ed inappuntabile si contrappone ad Harry, dandy incallito, smaliziato, cinico, dalla battuta (rigorosamente in didascalia!) sempre pronta, stile eccentrico con papillon e pochette disordinata. Parte così una lunga, lunghissima saga di fraintendimenti, trucchi, bugie, rincorrimenti, intrecci amorosi e tentativi più o meno riusciti di truffe alla ricerca di una collana di brillanti grossi come uova in una carovana di improbabili emiri, maraja, faccendieri, parvenù, aspiranti femme fatale, delinquenti di alto medio e basso borgo, poliziotti non estremamente svegli (la base di un altro clichè vincentissimo) e… Marlene Dietricht. Sì, proprio lei: nel 1927 è già famosa ma non è ancora la diva immortale giunta ai giorni nostri. Accompagnata da un inseparabile filo di perle e da un nano (parentesi unpolitically correct che oggi – un po’ come tutto – sarebbe improponibile) è relegata ad un ruolo di comprimaria, forse per una delle ultime volte in carriera. Alla pari del protagonista, anche senza la pesantezza dell’ombretto di questi, buca lo schermo come pochi nella storia del muto.

Ed ancora la gag del treno, dell’uomo chiuso in un baule, l’inseguimento in automobili che poliziotteschi italiani dei ‘70s scansatevi! Non ci sono  le torte in faccia sostituite della battaglia con i cuscini che rende un’atmosfera analoga. E poi i contrasti – mai più ripetibili – del b/n, la tensione crescente ed il silenzio del muto che riempie la sala.

Sullo sfondo dell’effervescente, intrattabile e ruggente Nizza, capitale europea della bella vita di quegli anni, il film diverte i propri interpreti, il pubblico di allora e quello di quasi cent’anni dopo con gag davvero riuscite. Se Wilde qualche decennio prima pone le basi dell’umorismo queer, la commedia del muto, di un certo muto, porta avanti il testimone con gli adattamenti del caso. Piel è un mattatore nato e il bluff che smaschera un altro bluff è la risoluzione degna di un cinema da considerarsi a tutti gli effetti di livello.
Timothy Rumsey ovvero la grandezza dell’assenza, piano. Per chi non avesse mai partecipato a LGDCM, funziona così: il film viene proiettato nella sala del Teatro Verdi, sotto scorrono le didascalie, i dialoghi, le descrizioni, nella buca c’è un musicista (o un’orchestra per le serata clou) che suona dal vivo non tanto una colonna sonora quanto una vera e propria descrizione musicale della pellicola. Il giovanissimo pianista inglese (presentato come masterclass student), è tanto all’altezza quanto umile nel non venire a reclamare i meritatissimi applausi a fine proiezione. Al di là della squisitezza del tocco, dei cambiamenti repentini di ritmo, delle sottolineature ora di dinamicità ora di disperazione ora di ilarità, la serata per lui contiene anche una trappola. Vuoi per montaggio errato o perchè la pellicola così è stata restaurata, ad un certo momento, alcune scene si ripetono. Il nostro rimane impassibile, concentrato, implacabile nel ri-suonare il medesimo passaggio. Dieci e lode per un musicista che per oltre un’ora e mezza suona alla stregua di uno spettatore che avesse il posto all’altezza del net a Wimbledon, al Roland Garros o al circolo sotto casa e seguisse le battute con repentine torsioni del collo destra-sinistra, spartito-monitor (dove vede la proiezione) e la cui qualità principale risiede nel fatto di mettersi al servizio dell’opera, tanto che il suo contributo ne risulta talmente amalgamato da apparire impercettibile, da sembrare – volutamente – assente. Chapeau, è proprio il caso di dirlo! E appuntamento ad ottobre 2024.

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